Ti guardo, ma il tuo volto non
lo riconosco. Hai una strana espressione, la bocca piegata in giù.
Il tuo sonno è agitato, le
dita si muovono come a dirigere un’orchestra immaginaria.
Da quel maledetto cinque
agosto sono passati solo otto mesi, tu hai lottato e io al tuo fianco, senza
arrenderci mai.
La malattia, innominabile,
nessuno ha mai pronunciato il suo nome, come se non dirlo ad alta voce la
rendesse meno vera, più lontana. Nemmeno l’oncologo lo ha mai fatto, è sempre
stata la malattia, la patologia, il problema.
«Una patologia grave a carico
dei polmoni» hanno detto durante la prima visita.
Ma io l’ho visto il suo nome,
stampato nero su bianco sul referto della biopsia: Carcinoma a piccole cellule.
Il peggiore. Non operabile.
Ricordo come hai affrontato la
chemioterapia: una roccia!
I dottori mi dicevano di
starti vicino, che avresti avuto bisogno di aiuto, di supporto. La stanchezza
ti avrebbe a tratti sopraffatto e non avresti potuto affrontare da solo gli
impegni quotidiani.
Tu non hai permesso che fosse
così, anzi.
Quando venivo da te mi facevi
trovare manicaretti di ogni tipo, sperimentavi questa nuova passione, beandoti
dei miei complimenti e del mio appetito.
Stavi bene, eri sereno e contento
di avermi con te.
Sembrava stessi vincendo tu,
contro la bestia.
Che poi bestia non è, perché
gli animali agiscono per istinto di sopravvivenza, mentre lui, l’innominabile,
è talmente cattivo e coglione da uccidere l’organismo stesso che lo ospita, distruggendosi
a sua volta.
Poi, all’improvviso, la
febbre, la debolezza assoluta, il 118.
Da lì in poi sono stati
corridoi di ospedale, ansia e una dottoressa bastarda che senza un briciolo di
umana pietà mi ha detto che non avresti superato la notte.
Ho vacillato, per la prima
volta.
Mi sono sentita inutile e
impotente. Anche senza nominarlo, lui c’era e voleva che non ce ne
dimenticassimo.
Ma tu, la roccia, la notte
l’hai passata e anche quella dopo e quella dopo ancora. L’hai di nuovo sfidato.
Dopo qualche giorno eri seduto
sul letto e volevi alzarti, camminare.
Allora ci ho di nuovo creduto,
non mi sono arresa perché non lo stavi facendo tu. Eri tu che mi davi la forza
per aiutarti.
Piano piano sei riuscito a
rimetterti in piedi, passeggiavamo lungo il corridoio del reparto di medicina A
e tutte le infermiere ti salutavano con un sorriso «Bravo Giorgio! A spasso con
il girello!»
Pensavi al tuo orto e ai
pomodori da seminare di lì a poco.
Magari avresti chiesto l’aiuto
di qualcuno perché da solo sarebbe stato troppo faticoso, ma quest’anno anche
qualche cipolla di Tropea in più l’avresti piantata.
Quando il mio telefono ha
squillato e ho visto il nome dell’oncologa lampeggiare, ho avuto un brivido.
«Buongiorno dottoressa, mi da
buone notizie?»
Lei, giovane ma già esperta,
mi è piaciuta fin dal primo incontro. Decisa, tenace, diretta.
Il suo sorriso ha scaldato
anche le parole più brutte e dure, ma quella volta al di là della cornetta non
l’ho percepito.
«Purtroppo dall’ultima TAC è
emersa una nuova lesione, a carico cerebrale».
Una metastasi, al cervello.
Ho di nuovo vacillato.
Da quella telefonata sono
passati quindici giorni e piano piano ti ho visto cedere, arrenderti
involontariamente.
Giorno dopo giorno cambiavi,
non camminavi più, non scrivevi più. Stentavi a pronunciare parole chiare fino
a quando mi hai detto «Portami via di qui. Voglio morire a casa».
Ho capito che ti eri arreso.
Anche se non ti rendevi conto
della tua condizione e a volte pensavi al rinnovo della patente o alla ricarica
telefonica, il tuo inconscio si era arreso.
Mai avrei pensato che sarebbe
successo così velocemente e mai avrei considerato che quei pochi giorni mi
avrebbero cambiata per sempre.
«Inizieremo le cure palliative
domiciliari».
Inizieremo, chi?
Nessuno mi ha avvertito che le
cure palliative, a casa, le avrei dovute somministrare io.
Nessuno mi ha preparato alle
tue allucinazioni, alla cattiveria indotta dai farmaci. Al terrore provato nel
cuore della notte quando un click dell’interruttore della luce che si accende
ti manda nel panico perché non sai se chi ami ti riconoscerà o ti scambierà per
un ladro, un nemico.
Nessuno mi ha informato che
avrei dovuto iniettarti io la morfina per aiutarti a morire con meno dolore. La
stessa morfina che ti stava lentamente trasformando in un essere senza capacità
di giudizio e volontà.
Ho dovuto fermarti e
convincerti, quando alle due di notte urlavi che dovevi andare a Torino a
lavorare.
Assecondarti quando pensavi di
sentire suonare il telefono e mi gridavi contro che ero una buona a nulla.
«Non è più lui, non è più mio
padre» mi dicevo tra le lacrime.
Certo, l’infermiere viene
tutti i giorni. Misura i parametri vitali, attacca una flebo di soluzione
idratante, due parole e se ne va, in tutto una mezz’ora.
«Mi raccomando, se la
saturazione scende troppo, gli somministri una fiala di morfina. Ci vediamo
domani».
Già, ma quanto è lontano
domani?
No, non te ne andare, rimani
con me. Io non sono capace… E se faccio la cosa sbagliata? E … Se non ce la
faccio?
Mi sono ritrovata a prendere
decisioni che peseranno per tutta la vita.
Tu non avresti voluto questo.
Ne sono sicura.
Non avresti voluto sentirmi
con il cuore in gola a contare i secondi tra un respiro e l’altro, a guardare
il tuo petto gonfiarsi per capire se eri ancora con me.
Ti guardo dormire con la bocca
piegata all’ingiù e mi chiedo dove sarai adesso con la mente.
Probabilmente ti stai
divertendo con i tuoi amici d’infanzia a Montiglio. Starai combinando qualche
cazzata insieme a Luciano per poi mangiare insieme una bella insalata di carne
cruda.
Il cancro ha vinto.
Il maledetto cancro distrugge
tutto: l’organismo di chi lo ospita e la speranza di chi pensa di poterlo
sconfiggere.
Ti guardo papà.